a cura di Rosario Sultana

Mons Rumeo, Vescovo di Noto al clero diocesano: “sogno che la nostra Chiesa diventi, casa e scuola di comunione”

Lo scorso 23 marzo 2023 al Santuario diocesano della Madonna della Scala, il Vescovo Salvatore Rumeo ha incontrato, per la prima volta, tutto il clero netino, la partecipazione è stata numerosa e attenta. Durante l’incontro il Vescovo ha voluto esprimere la sua immensa gratitudine al Signore per la presenza del clero di Noto nella sua vita, per l’accoglienza che gli è stata riservata, nella casa di Maria, che da sabato 18 marzo, è anche casa del Vescovo. Mons Rumeo ha rivelato ai presenti i suoi sogni: “io sogno che la nostra Chiesa, come la santa dimora di Nazareth, diventi sempre più «casa e scuola di comunione»: sperando che sia il sogno di tutti. Di una cosa sono certo, – ha proseguito il presule netino – Siamo una Chiesa viva e vogliamo lavorare instancabilmente per essere Chiesa unita, fiduciosa e perseverante, una Chiesa aperta e attenta alla voce dello Spirito. E lo Spirito ha scritto «con» e «per» questo popolo di Dio, nella storia feriale, pagine indelebili di santità”.

Rumeo parlando a presenti, visibilmente commosso, ha detto: “ho sperimentato in questi mesi la gioia dell’ascolto e dell’incontro. Le vostre testimonianze di pastori appassionati e zelanti, il desiderio di servizio e di autentica responsabilità mi hanno fatto percepire la bellezza e la ricchezza della nostra chiesa. Camminiamo insieme per crescere nella fraternità e nella comunione presbiterale. È uno dei punti salienti e il cuore del discorso di Gesù dopo l’ultima cena (cfr. Giovanni 13-17). Siamo tutti consapevoli che alla base dello stile di collaborazione tra sacerdoti c’è proprio la comunione, la fraternità e la corresponsabilità tra di noi sacerdoti e diaconi”.

Rivolto poi ai presbiteri ha ricordato come “la consacrazione che abbiamo ricevuto nel giorno della nostra ordinazione sacerdotale ci porta ad essere messaggeri di salvezza per tutti. Noi siamo, come ci ricorda il profeta Isaia, «stirpe benedetta dal Signore» (61,9). Noi, carissimi,- ha detto il presule –  siamo invitati a testimoniare, proprio per mandato esplicito del Signore, dentro la complessa storia del mondo e degli uomini, dentro le contraddizioni e le inquietudini dei nostri giorni particolari, la salvezza e la liberazione che Gesù ha offerto a tutti, attraverso l’annuncio del Vangelo che passa attraverso la testimonianza concreta di vita, personale e comunitaria. La vita comunitaria è al centro del Vangelo perché Dio è comunione. Per tale motivo, quando Cristo istituì il sacerdozio ministeriale, gli diede una forma comunitaria affidando alla piccola comunità dei Dodici l’ufficio pastorale nella Chiesa, chiamandoli ad assolverlo sotto la guida di Pietro”.

Mons Salvatore Rumeo, Vescovo di Noto

Il sacerdote deve coltivare la consapevolezza di essere stato inviato – ha ribadito il Vescovo Rumeo – come dono in mezzo alla comunità per servirla pienamente «in persona Christi». Altrettanto importanti suonano in merito le parole di Giovanni Paolo II che afferma: «Il sacerdozio ci è stato dato come dono. Ma in noi e per mezzo di noi, il sacerdozio è un “dono per la Chiesa”». Il sacerdote che ripete con entusiasmo ogni giorno il suo «sì» e il suo «eccomi» non moltiplica il sacerdozio di Cristo, ma lo rende solo presente nella storia, tant’è che egli diviene così un «alter Christus», se non addirittura un «ipse Christus». Il sacerdote, che deve poter dire come San Paolo «mihi vivere Christus est» (Fil 1,21), diviene nel tempo e nella storia, l’icona della presenza viva ed operante di Cristo, il segno-persona del Signore risorto Capo della Chiesa, il suo Sacramento radicale, la sua trasparenza. Ecco, dunque, il compito fondamentale del sacerdote in rapporto a Cristo: renderlo presente, in modo visibile, nella sua vita e nel suo ministero, dopo il Suo ritorno al Padre.

Mons Rumeo rivolgendosi ancora una volta al suo presbiterio ha ribadito: “saremo capaci di lavorare oggi con fedeltà per l’opera di salvezza di Cristo, solo agendo in comunione vera con tutto il presbiterio. La Presbyterorum Ordinis al numero 8 ci ricorda che «tutti i presbiteri, costituiti nell’Ordine del Presbiterato mediante l’ordinazione, sono intimamente uniti tra di loro con la fraternità sacerdotale». Non è pertanto una fraternità solo di azione o di attività frenetica, ma è una fraternità affettiva e di reale amore fraterno. È proprio quest’amore vicendevole che dovrà ispirare la collaborazione tra di noi in una pastorale sinodale. Gli apostoli, prima di essere mandati, furono chiamati insieme a costituire una vera comunità (cfr. Giovanni 1,35-39). Ancora oggi Gesù ci manda facendosi carico della nostra missione e del nostro cammino, invitandoci a vivere con autentica passione e con rinnovato slancio il mandato apostolico. L’Eucaristia è la prima e fontale radice del ministero presbiterale, sacramento di unità e comunione, poiché è in essa che noi, diventiamo una sola cosa in Cristo. Anche noi, non solo presi singolarmente, ma come presbiterio, unti e consacrati con l’unzione dello Spirito, siamo nuovamente mandati a realizzare quella piena e intima unione con Cristo e con la Chiesa, in comunione con il vescovo e con i confratelli, nell’unico presbiterio diocesano”.

La fraternità e la comunione presbiterale – ha sottolineato il presule – non si fondano principalmente sui nostri sforzi di collaborazione pastorale e nemmeno su un sincero e orizzontale desiderio di amicizia: aspetti, questi, importanti che dobbiamo curare sempre. La comunione e la fraternità, caratteristiche delle prime comunità cristiane (cfr. Atti 1,14; 2,42; 5,12; 15,25; 1 Giovanni 1,3), sono dono di Dio e partecipazione del suo «essere insieme» nella Trinità. Questo dono si radica nel Battesimo e si attua attraverso la grazia tipica del sacramento dell’ordine per l’imposizione delle mani del Vescovo che ci ha resi «servitori di comunione», fino a diventare «esperti di comunione».

Parlare, allora, di comunione tra noi – ha ribadito il Vescovo – non significa sforzarsi di costruire una casta elitaria, un gruppo chiuso, ma accogliere il dono che ci unisce strettamente gli uni agli altri per il servizio di una fraternità universale. Il mondo – e lo sperimentiamo ogni giorno nelle nostre parrocchie – ha bisogno di più amore, di più fraternità e solidarietà, di riconciliazione e di perdono reciproco. È all’interno delle parrocchie che devono nascere forme di comunione di vita che alimentino e testimonino l’unità del presbiterio.

Sono convinto – ha detto Rumeo – che da momenti concreti e spiccatamente feriali di vita fraterna, così come da tradizione nella nostra chiesa diocesana, si rafforzerà anche il desiderio di collaborare insieme con i laici e religiosi, programmando corresponsabilmente la pastorale e mettendo in atto attività comuni. Se noi presbiteri ci stimiamo e ci aiutiamo a vicenda, siamo già una testimonianza di vita per la comunità. L’evangelizzazione passa anche dalla nostra testimonianza di vita.

Il Vescovo ha poi sottolineato l’importanza dell’autenticità della vita sacerdotale ricordando un presupposto indispensabile, affermando che la vista sacerdotale sia sempre “radicata nella Parola e nell’Eucaristia. Tre sono i luoghi di riferimento: Gerusalemme, luogo del tempio, luogo dell’incontro con Dio, pane parola, pane eucaristia, pane carità. Gerico, luogo del fare, del servire, del prendere posizione, dell’impegno sociale, politico… Emmaus, luogo della riscoperta della fede! In ogni eucaristia c’è un «andate in pace», c’è un invito a uscire dal tempio per immergersi nel quotidiano, nel territorio, nel vissuto, non in modo episodico e occasionale, ma continuo e come voi ben sapete con tanto spirito di sacrificio. Modello supremo è Cristo che esce dal «seno» del Padre e si incarna; scende dentro il territorio dell’umanità, entra nella fatica del vivere dell’uomo per liberarlo e per salvarlo”.

La gente oggi – ha sottolineato il Vescovo Rumeo – non ha bisogno di sacerdoti scrupolosi o distratti, ma di samaritani che sappiano guardare dentro. Il mondo è un fiume di lacrime invisibili a chi ha perduto lo sguardo del cuore. Recuperiamo il cuore. Ogni giorno. Molte volte i vangeli riferiscono che Gesù «mentre camminava vide» (Mt 4,18); camminava e abitava la vita, ben presente a tutto ciò che accadeva nel suo spazio vitale; sapeva guardare negli occhi: «Donna, perché piangi?» (Gv 20,13) e scoprire nel riflesso di una lacrima, la sorgente dell’amore. Davanti alle ferite della vita qualcosa di noi vorrebbe chiudere gli occhi, girare la testa e le spalle e andare oltre… Il sacerdote, invece, è costantemente in ascolto delle voci, delle parole, in osservazione dei volti e delle storie del territorio. Si tratta di uno sguardo misericordioso, non di giudizio, un vedere amoroso, a «cuore aperto».

Il sacerdote è colui che matura una grande compassione per le storie di vita; – così si è espresso il presule netino – come la Chiesa è un «esperto in umanità». Significa saper piangere con chi piange e ridere con chi ride, farsi concretamente carico delle situazioni colte nel territorio e saper portare i pesi gli uni degli altri.

Viviamo in una società che sanguina – ha evidenziato il Vescovo – e il costo delle sue ferite di solito finiscono col pagarlo i più indifesi. Ma è proprio in questa società, in questa cultura che il Signore ci invia. Ci invia e ci spinge a portare lì il balsamo della “sua” presenza. Ci invia con un solo programma: usarci misericordia, renderci vicini a quelle migliaia di indifesi che camminano nella nostra amata terra americana proponendo un atteggiamento diverso. Un atteggiamento nuovo, cercando di far sì che il nostro modo di relazionarci s’ispiri a quello sognato da Dio, a quello attuato da Dio. Un modo di trattare basato sul ricordo del fatto che tutti veniamo da luoghi remoti, come Abramo, e tutti siamo stati condotti fuori da luoghi di schiavitù, come il popolo di Israele.

Sono certo – ha detto Rumeo – che una Chiesa, aperta all’azione dello Spirito e capace di declinare quotidianamente la comunione in corresponsabilità, possa porsi come lievito di fermenti positivi anche nella prassi della odierna società. Dinanzi al fallimento dei comunismi e al vuoto degli individualismi, l’unica risposta carica di senso che rimane a questo nostro mondo è la strada della comunione. Vivere la comunità ecclesiale come luogo di corresponsabilità può e deve divenire segno profetico di una ritrovata capacità comunicativa e dialogica in un mondo sempre più arenato in forme di vita condizionate da atteggiamenti compromissori e funzionali, non orientati alla verità. Solo una comunità palestra di relazioni condivise diviene capace di umanità, sincera e seduttiva, e assume il volto della speranza.

«Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo» (NMI 43). La spiritualità di comunione sta a fondamento della vita cristiana perché nasce dal Cuore di Dio e genera stili di vita evangelica indispensabili per la formazione di tutto l’uomo, dell’uomo integrale.

«Che cosa significa questo – ha chiesto il Vescovo – in concreto? Anche qui il discorso potrebbe farsi immediatamente operativo, ma sarebbe sbagliato assecondare simile impulso. Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità» (NMI 43). «Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto» (NMI 43). «Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia» (NMI 43).

Per questo – ha sottolineato Mons Rumeo – «spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto» (NMI 43).

La comunione genera unità e non divisione, – ha sottolineato il Vescovo evidenziato i pericoli della comunione – per questo bisogna saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» (NMI 43). Solo alla luce della comunione cessano le esteriorità e tutto ciò che allontana da ogni forma ed espressione vera di fedeltà evangelica.

«Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, – ha ribadito il Vescovo – ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa. La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra Vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero Popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali. A tale scopo devono essere sempre meglio valorizzati gli organismi di partecipazione previsti dal Diritto canonico, come i Consigli presbiterali e pastorali. Essi, com’è noto, non si ispirano ai criteri della democrazia parlamentare, perché operano per via consultiva e non deliberativa; non per questo tuttavia perdono di significato e di rilevanza.

Non si può parlare di comunione – a continuato a dire il presule netino – senza relazioni vicendevoli, senza partecipazione, riconciliazione, dialogo, discernimento comunitario, solidarietà. La Chiesa è “mistero” di comunione con Dio, tra i fratelli e con la natura e il cosmo e, quindi, è spiritualità che esige l’incarnazione nel tempo e nello spazio (Chiesa locale). La Chiesa è chiamata ad assumere un volto relazionale che pone al centro l’ascolto, l’accoglienza, il dialogo e il discernimento comunitario. Essere cristiani significa principalmente incontrare il Signore. Il cristianesimo non è una dottrina filosofica o l’elaborazione speculativa di un sapere debole e astratto. E’ un Incontro!

Stare in mezzo alla gente – ha ribadito Mons Rumeo –  non significa solo essere aperti e incontrare gli altri ma anche lasciarci incontrare. Siamo noi che abbiamo bisogno di essere guardati, chiamati, toccati, interpellati, siamo noi che abbiamo bisogno degli altri per poter essere resi partecipi di tutto ciò che solo gli altri ci possono dare. La relazione chiede questo scambio tra persone: l’esperienza ci dice che di solito dagli altri riceviamo di più di quanto diamo. Tra la nostra gente c’è un’autentica ricchezza umana. Sono innumerevoli le storie di solidarietà, di aiuto, di sostegno che si vivono nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità.

Ringrazio quei sacerdoti – ha detto Rumeo – che hanno già avviato forme concrete di comunione e fraternità realizzando una vita comune da cui trarre forza e vigore pastorale per il ministero. Ricordiamo i nostri fratelli sacerdoti ammalati, per i sacerdoti studenti e preghiamo per il nostro Seminario.

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